Durante un recente programma televisivo il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità ha sostenuto

che i medici omeopati dovrebbero essere denunciati perché non rispetterebbero il codice deontologico. Questa dichiarazione non corrisponde a nessuna verità. La Corte Costituzionale ha ribadito che l’esercizio della Medicina Omeopatica è un atto medico e dunque necessariamente compiuto da un medico. La Federazione degli ordini dei medici ha inserito Omeopatia, Agopuntura e Fitoterapia quali pratiche riconosciute nell’esercizio medico. La Comunità Europea ha riconosciuto e regolamentato i medicinali omeopatici. Lo stesso stato italiano sta procedendo al rinnovo delle autorizzazioni dei medicinali omeopatici. Di conseguenza le affermazioni del direttore dell’ISS si appoggiano sul nulla.

Signori come quello testé citato sostengono - ci sembra di capire - che ogni medicina deve avere una prova “scientifica” necessaria perché possa essere usata. E questa prova scientifica deve essere tale da assicurare una qualche efficacia del medicinale in oggetto. Dobbiamo essere coscienti che questi signori, ritenendo la medicina una “scienza”, considerano, di conseguenza, i pazienti non più persone ma semplicemente cavie da laboratorio. Il modo in cui si comportano sembra tracciare un profilo di questo genere.

Messa da parte questa pur necessaria precisazione, l’atteggiamento precedente, caldeggiato da alcuni soggetti, è certamente sintomatico di una concezione della Medicina e dello Stato violentemente negazionisti dello stato di diritto.

Andiamo invece in fondo alla questione “efficacia”; è su questo piano che si deve doverosamente rispondere a queste persone sul piano della civiltà scientifica e giuridica. Quando parliamo di efficacia, stiamo parlando del grado, della capacità di curare di una determinata sostanza o di un trattamento. Quando leggiamo che un antibiotico ha un’efficacia del 30%, 40% o qualunque altra percentuale, questo vuol dire che su 100 pazienti trattati un certo numero ha tratto beneficio dalla sua assunzione. Guardando i numeri, la questione diventa subito molto chiara. Solo un certo numero di pazienti trattati ha avuto beneficio da quel trattamento, mentre l’altra frazione non ha avuto alcun risultato, o solo risultati parziali.

Ecco, è questo il punto. Se usiamo delle cavie, le ammaliamo in laboratorio e poi sperimentiamo il trattamento, una parte guariranno ed una parte no. Se si tratta di una malattia molto seria probabilmente moriranno. Succede lo stesso anche con i pazienti. Quando il nostro oncologo preferito sentenzia che il nostro cancro ha una possibilità di cura (remissione di almeno 5 anni) del 50%, ci sta dicendo che il 50% dei soggetti trattati ha una possibilità di sopravvivenza superiore ai cinque anni almeno. Ora questo significa che l’altro 50% non avrà questa possibilità.

Quando domandiamo da che parte stiamo noi, da quella del 50% che sopravvive o quella del 50% che non sopravvive il medico non saprà darci alcuna risposta sicura. Ergo, tutta la scienza dell’efficacia di fronte al paziente singolo non serve a un fico secco. Perfino se il medico in questione dice che la frequenza è altissima, il 70 l’80%, non saprà mai confermare al paziente che decorso avrà la sua, di quel paziente, malattia.

Quindi la scienza di per sé non dà alcuna garanzia a quello specifico paziente della sua guarigione, tranne nel caso evidentemente in cui guariti siano il 100% ed il medico un indovino.

È qui allora, e prevalentemente qui che urge, necessita la libera scelta del paziente. È proprio di fronte ad una medicina “scientifica” incapace di precisare alla persona individuale il decorso della malattia, che il paziente deve essere libero di esplorare altre strade, alternative o complementari esse siano. Rifiutare questo percorso ad un paziente significa impedirgli di gestire il suo corpo e la sua coscienza.

Ma qui c’è anche il fondamento della indispensabile libertà del medico.

Non dobbiamo nasconderci dietro la foglia di fico. Dire ad un paziente che ha il 40% di probabilità di cavarsela non deve essere lo strumento di protezione legale del medico. Il medico dovrebbe fare tutto quello che sa e che può per migliorare le condizioni del suo paziente, anche e specialmente in casi gravi. Come può rifiutarsi, una persona che ha lavorato tutta la sua vita per salvare un suo simile, di provare a fare qualcosa in più? E come può lo stesso medico impedire al paziente di cercare altre strade? È immorale pensare che il medico non possa cercare altrove, nella sua esperienza o in quella di altri un modo per migliorare anche di un 2 3 o 5 percento la vita del malato. La libertà di scelta terapeutica, la libertà di decidere quale sia il trattamento migliore per il paziente e la libertà di scegliere quel trattamento devono essere un obbligo deontologico del medico. Negare questa libertà al medico significa tornare ad una barbarie in cui il medico ha potere di vita e di morte sul suo paziente. Duemila anni di civiltà dovrebbero averci reso sensibili a questi diritti elementari. Il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità e i suoi amici che si reputano così progressisti, prima di rivendicare a sé o ai suoi amici il diritto sul corpo e sulla coscienza della gente dovrebbe perlomeno riflettere alle conseguenze che genera la loro posizione trogloditica.